Non è perché va tutto bene, che il coaching non serve.

Quattro chiacchiere con Elaine Leen, coach ICF PCC e project manager presso PerformanSe.
Con la sua esperienza ventennale, ci parla dei tool come specchi che accelerano il processo, del rischio di affidarsi troppo ai dati e tralasciare la parte umana, della Solitudine degli Executive e dell'importanza del coaching come spazio sicuro.
Elaine, lavori come executive coach da anni. Ti va di presentarti e di dirci come è nata questa passione?
Sono una coach accreditata ICF PCC, e sono anche supervisore di coach, con accreditamento EMCC ESIA. Lavoro nel coaching dal 2012. Sono arrivata al coaching tramite PerformanSe, l’azienda che sviluppa test psicometrici, per cui lavoravo all’epoca, e ancora oggi lavoro. A un certo punto ho iniziato a sentirmi frustrata perché, quando restituivo i risultati dei test alle persone, anche se iniziavano a prendere consapevolezza del percorso da intraprendere, a volte incontravano dei blocchi nel percorso di sviluppo personale. E volevo avere degli strumenti per aiutarli. Volevo essere in grado di fare domande di coaching efficaci.
Perché ami questo lavoro?
Perché, fondamentalmente, amo le persone e mi appassiona aiutarle a diventare la versione migliore di sé, a migliorare il loro rapporto con il lavoro e con gli altri, affinché si sentano più a loro agio nel proprio ruolo. In questo modo diventano manager e leader migliori. Il mio lavoro consiste nell’aiutare le persone a migliorare in ciò che fanno.
Migliorare nel lavoro e anche nella vita, suppongo.
Sì. Non esiste un muro netto tra la vita privata e quella personale, e una può influenzare l’altra.
Immagino che tu abbia lavorato con persone molto diverse in questi anni. A vari livelli e in ruoli differenti. Potresti fare qualche esempio?
Lavoro con i CEO e con i direttivi aziendali, perché mi occupo anche di team coaching. Lavoro con loro sia individualmente sia in gruppo, con manager di tutti i livelli, anche neomanager o persone che si avvicinano per la prima volta alla gestione, senza avere ancora ricevuto formazione. E questo in ogni settore, sia privato che pubblico. Anche con le istituzioni europee.
È un lavoro fantastico: mi permette di incontrare tante persone diverse e interessanti, provenienti da settori molto vari: farmaceutico, banche, assicurazioni, istruzione e molti altri.
E trovo che emergano dei temi ricorrenti per i leader: richieste simili, per le quali vogliono essere accompagnati e guidati.
Interessante. Di cosa hanno bisogno? Cosa ti chiedono?
Il top management è più orientato a capire come avere maggiore impatto, come influenzare le cose, ottenere più visibilità, muoversi nella politica interna all’azienda. A quei livelli spesso ci sono molti dilemmi, perché ci sono interessi contrastanti. Per esempio, il consiglio di amministrazione può volere una cosa e i collaboratori un’altra.
Ci sono molte dinamiche politiche interne, che possono portare a conflitti e stress. Questo è ciò su cui si concentrano maggiormente i top manager.
Il middle management, invece, è più focalizzato sull’efficacia all’interno del team, sulla delega, sull’allineamento tra strategia e operatività.
Molte delle persone che seguo nel coaching vogliono capire come affrontare conversazioni difficili, specialmente quando ci sono conflitti nelle relazioni lavorative.
Qual è la sfida più grande per te come coach?
La sfida più grande per me come coach — e sorrido perché so che è un mio limite — è che mi entusiasmo così tanto per la persona e il suo tema che a volte faccio fatica a restare nel ruolo di coach. Un coach non dovrebbe dare consigli, quindi devo trattenermi dal dire “perché non provi a fare così?” oppure “magari potresti fare questo”.
Devo fermarmi, e porre invece domande, tipo “cosa provi quando dici questa cosa?” o “ho notato un cambiamento nella tua energia, a cosa potrebbe essere legato?”. Ecco, questa è una delle mie difficoltà.
Perché sei empatica e quindi forse ti fai coinvolgere, e devi sforzarti di restare obiettiva, guardare le cose da fuori.
Sì. E devo anche sforzarmi di non presumere che la persona abbia lo stesso tipo di problema di qualcuno che ho già seguito in passato, perché, come dicevo, emergono spesso gli stessi temi. Ma ogni persona è un individuo. Ha la propria personalità, i propri valori, le sue motivazioni. E lavora in un contesto diverso da quello di altri che ho seguito.
Quindi devo evitare di pensare “questo problema mi ricorda quello di un’altra persona di qualche mese fa”.
Sono anche supervisionata. Per ogni coach certificato è una buona pratica essere supervisionati. Io stessa ricevo supervisione e rifletto molto dopo le sessioni che conduco.
A volte riporto delle situazioni al mio supervisore e mi confronto con lui, chiedendogli, per esempio: “Ho superato il limite, secondo te? Perché ho la sensazione di aver quasi diretto le domande”.
Sono curiosa riguardo il tuo ruolo di supervisore. Cosa significa? Cosa fai come supervisore di coach?
Supporto i coach, che lavorino One-to-One o con i team, e li aiuto a fare un passo indietro e riflettere sui processi in gioco.
Perché anche il coach è uno strumento. Il coach stesso è parte del processo di coaching.
È necessario assicurarsi che la persona stia definendo con il cliente gli obiettivi e le regole del percorso, che non venga trascinata dentro al problema, che riesca a mantenere la giusta distanza.
E, come supervisore, posso anche offrire strumenti e dare consigli. È una postura diversa, un ruolo diverso. E devo ammettere che mi piace molto.
Per esempio, posso aiutarli anche a usare i test psicometrici, che sono un altro strumento molto utile per i coach.
Gli strumenti psicometrici, come quelli di PerformanSe, ti aiutano ad affrontare il coaching in modo oggettivo. Potresti spiegare come funziona, e fare qualche esempio basato sulla tua esperienza?
Trovo gli strumenti PerformanSe davvero utili perché offrono dati concreti su personalità, comportamento, valori, motivazioni, stili cognitivi. Aiutano a sviluppare una consapevolezza di sé più profonda.
Normalmente gli Executive hanno già una certa consapevolezza di sé, ma con questi strumenti andiamo ancora più in profondità. Confermano ciò che già sanno su se stessi, ma aiutano anche a individuare i punti ciechi e a validare le loro percezioni.
Sono come uno specchio, e penso che accelerino il processo.
Forniscono informazioni sui modelli comportamentali e sulle dinamiche della persona, e aiutano anche a fissare obiettivi e piani d’azione.
A volte gli Executive arrivano da me e non sanno su cosa lavorare, perché è l’azienda ad aver proposto il coaching. Mi dicono: “va tutto bene, non credo di aver bisogno di coaching”. E io rispondo: “non è perché va tutto bene che non hai bisogno di coaching”.
Penso che tutti abbiano bisogno di coaching. Tutti hanno bisogno di qualcuno con cui poter fare un passo indietro, riflettere, esplorare, in uno spazio sicuro e riservato in cui farlo.
Perché, sai, quando sei un Executive e sei sotto i riflettori tutto il tempo, puoi sentirti molto solo, anche a causa delle dinamiche politiche in gioco. E magari non vuoi condividere i tuoi dubbi o dilemmi con nessuno all’interno dell’azienda.
Gli strumenti aumentano davvero l’oggettività.
E possiamo anche osservare i cambiamenti nel tempo: se una persona compila un test psicometrico, e poi lo ripete dopo un anno di coaching e sviluppo, dovrebbe emergere un’evoluzione nei comportamenti.
Il test non è una valutazione definitiva. È un punto di partenza. Non è il coaching in sé.
È un punto d’ingresso per il dialogo, e offre un modo ricco e strutturato per aiutare i leader a vedersi con più chiarezza, a mettere in discussione alcune convinzioni, a essere più consapevoli del proprio contesto.
Bisogna però fare attenzione a non dipendere troppo dai test psicometrici. Proprio perché sono così pertinenti e utili, può esserci la tentazione di affidarsi troppo ai dati. A discapito del processo di coaching.
E, ovviamente, il coach deve essere formato all’uso dello strumento, altrimenti non riuscirà a coglierne le sfumature.
Hai parlato della Solitudine del Manager. Potrebbe essere interessante approfondire, perché credo sia vero.
È così. Hanno bisogno di uno spazio per esprimersi, per condividere.
Come un “amico critico”, uno specchio, qualcuno che faccia emergere i punti ciechi e dica:
“Ecco cosa sto osservando” oppure “Ti ho osservato durante una riunione con il team e ho notato che ogni volta che un membro proponeva un’idea, tu lo interrompevi. Ne eri consapevole?”.
Serve il coraggio di dire ciò che si vede.
Hai una storia da raccontare? Un caso particolare con un manager che ti è rimasto impresso?
Sì, di recente. Una persona che fa parte di un comitato esecutivo aveva appena terminato un processo di feedback a 360°. Era piuttosto turbato da alcuni risultati ricevuti dai membri del proprio team.
La sua prima reazione sarebbe stata, come spesso accade per lui, affrontarli direttamente e dire: “Cosa significa questo? Perché mi avete dato valutazioni così basse?”.
Invece ne abbiamo parlato insieme, e io gli ho detto: “Questo è ciò che fai di solito. E se provassi a fare qualcosa di diverso? Che cosa potresti fare di completamente nuovo?”.
L’ho spinto a pensare a cosa non farebbe mai, e lui mi ha risposto: “Non chiederei mai scusa”.
E io: “Ok, e cosa accadrebbe se lo facessi?”.
Ci ha riflettuto e, alla fine, è andato a parlare con i membri del team, quelli che inizialmente voleva rimproverare per i risultati del 360°, e ha detto: “Mi scuso se non sono all’altezza. Se ho ricevuto valutazioni basse, è perché non sto facendo le cose nel modo giusto”.
E ha funzionato benissimo. È stato un vero cambiamento.
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