Benessere aziendale: i vantaggi dell'assessment continuo.

Benessere aziendale: i vantaggi dell'assessment continuo.
Intervista mar 10, 2025 3 minuti
  • Sviluppo dei talenti
  • Team management
PerformanSe Italia per Francesca Murdocco
Intervista alla PhD Murdocco sui vantaggi dell'assessment continuo per il benessere aziendale

Quattro chiacchiere con Francesca Murdocco, PhD in Psicometria e Ricercatrice presso PerformanSe.

Parliamo di Benessere Aziendale, e dei vantaggi dell’assessment continuo nella prevenzione del burnout e del quiet quitting.

Francesca, cosa vuol dire benessere aziendale? Cosa significa benessere al lavoro e cosa gli associamo?

Nella letteratura scientifica, esistono dei concetti che sono spesso associati a quello che è il benessere in azienda: uno è la job satisfaction, la soddisfazione al lavoro, e un altro è l'engagement. La job satisfaction indica quanto sono soddisfatto del lavoro che faccio e dell’ambiente in cui mi trovo a operare. L’engagement è il livello di coinvolgimento nelle attività che svolgiamo e negli obiettivi aziendali, e la conseguente energia che investiamo.

Quando questi due elementi sono presenti nella Persona al Lavoro, portano al benessere lavorativo: la puoi immaginare come una scatola in cui ognuno deve mettere vari elementi per poter dire “Hey, mi sento bene qui!”.

Questo ci aiuta anche nella vita privata: aggiunge valore alla nostra persona e alla nostra vita.

C'è la tendenza a credere che solo nei casi in cui svolgiamo un lavoro di rilevanza sociale, per esempio per la Croce Rossa, il nostro lavoro ha valore e facciamo qualcosa di utile. Dobbiamo abituarci a pensare che ogni lavoro ha valore, anche quelli più tecnici.
Il massimo del benessere al lavoro si realizza quando inizia un positive spillover, come si dice in inglese: quando il benessere al lavoro si espande positivamente nella vita privata.

Quand'è che questo concetto di benessere viene messo in discussione? E quali fenomeni si sviluppano in questo caso?

Vari fattori possono incidere negativamente sul benessere dei lavoratori. Problemi economici dell’azienda, problemi economici a livello nazionale, difficoltà legate alla gestione manageriale interna, e, perché no, anche cause personali: a volte anche la sfera privata può influenzare negativamente il benessere lavorativo, e non solo il contrario.

Una delle conseguenze più diffuse di una diminuzione del benessere è il quiet quitting, di cui ormai tutti conosciamo l’esistenza. In PerformanSe stiamo facendo delle nuove ricerche per approfondire meglio questo fenomeno, partendo dalla misurazione del contratto psicologico, ovvero le aspettative di una persona circa il proprio rapporto con il lavoro. Questo fenomeno si verifica quando c’è una rottura nel contratto psicologico tra il collaboratore e l’azienda, quando la persona si aspettava A e invece sta vivendo B.

Sappiamo che il contratto psicologico di una persona oscilla tra il transazionale e il relazionale, ma abbiamo rilevato una terza sfumatura, che riguarda la maggior parte dei casi di quiet quitting: transazionale di transizione.

Qual è il profilo del quiet quitter?

Nella maggior parte dei casi, sono persone relazionali – che danno priorità ai valori condivisi con l’azienda - che iniziano a vivere una situazione di malessere, in quanto sentono che le loro aspettative sono state deluse.

Si mettono quindi in uno stato di transizione, una specie di limbo che li porta a perdere engagement. Diventando transazionali – per cui il lavoro diventa un mero do ut des.

Può essere un meccanismo di difesa per prevenire il burnout: si mettono in standby, in “risparmio energetico”, mentre valutano la situazione, e vedere se trovare un altro lavoro o rinegoziare il contratto psicologico con l’azienda.

Negli ultimi tempi sta emergendo anche un altro elemento: l’ansia. Uno stato in cui la persona diventa più attenta e ricettiva a quello che succede, e inizia a percepire come un possibile pericolo anche gli aspetti più innocui.

Quando un manager o un HR notano alcuni comportamenti anomali tra i collaboratori, dei cambiamenti nell’atteggiamento, un calo della produttività, che cosa può fare?

Il manager dovrebbe dare l'allarme, segnalare all’azienda che c’è un problema. E la soluzione di un problema avviene solo comprendendone la causa.

È qui che arriva l'assessment: un processo di assessment non solo ci aiuta a vedere che c’è un problema, ma ci fa capire qual è il problema.
Può esserci una disconnessione tra i valori della persona e quelli della dell'azienda. Può essere che la persona non è più disposta ad andare oltre le mansioni previste dal suo contratto. Può essere che le prospettive di carriera non sono quelle che le erano state promesse o che si aspettava e non aveva dichiarato.
L’assessment ci dice quindi dove possiamo intervenire.


Oltre che con funzione curativa, dopo che il problema si è già verificato, possiamo parlare anche di assessment continuo per prevenire il verificarsi di questi fenomeni?

Sì, certo. È lo stesso concetto di fare un check-up tutti gli anni per la nostra salute: meglio prevenire che curare. Per le aziende è lo stesso.
Possiamo capire se si sta diffondendo del malessere, e identificarlo prima che inizi a compromettere il lavoro dei collaboratori. Capire se l’eventuale malessere sia limitato a una sola persona, o se c’è un malessere generale che coinvolge tutto il team, o tutta la realtà aziendale. Anche il malessere di un singolo può diffondersi e influenzare i colleghi, quando è relativo a problematiche comuni: per esempio promozioni, aumenti di stipendio, problemi economici, licenziamenti.
Grazie agli assessment continui, sappiamo sempre dove ci troviamo sulla curva del benessere, e quali sono i livelli di engagement.

E questi percorsi di assessment sono tanto più efficaci in quanto, a supporto, vengono utilizzati degli strumenti scientificamente validati, per avere una fotografia di come sono le persone in azienda in quel momento.

Lavorando nel dipartimento di Ricerca e Sviluppo di PerformanSe, so quanto sia importante utilizzare dei tools scientificamente affidabili: sapere cosa stiamo misurando, e verificare che i parametri del questionario vadano veramente a verificare quello che interessa, e che siano adatti al mondo del lavoro.

Un processo continuo di verifica e di validazione, affinché i nostri tools siano sempre aggiornati nel corso degli anni, e pertinenti con la cultura di ogni nazione in cui i tools vengono utilizzati.

Unitamente all’expertise dei formatori e dei coach, l’affidabilità scientifica degli strumenti utilizzati è ciò che dà completezza ai percorsi di assessment di PerformanSe.
Per esempio, quando un’azienda sente che l'atmosfera si sta deteriorando, e decide di fare un percorso di assessment, c’è una cosa che rende più chiaro il punto di partenza: somministrare prima un Echo ai dipendenti, che è uno strumento di analisi motivazionale e comportamentale.

E rende chiaro anche il cambiamento nel corso del tempo.

Esatto. Se somministri un questionario all'inizio di un rapporto di lavoro e lo fai ripetere dopo uno o due anni, puoi vedere se livello di engagement e motivazione è rimasto invariato o si è modificato, e anche quello è un indicatore importante.
All’inizio della carriera, una persona è entusiasta e, se la situazione di benessere rimane, i risultati del report dovrebbero essere simili, e non dovrebbe esserci una grossa oscillazione nel contratto psicologico.
E’ molto utile per verificare l’andamento all’interno di una realtà non solo in caso di problematiche, ma anche per constatare i progressi positivi, i miglioramenti nel benessere aziendale.

Mentre te lo racconto, mi accorgo che ciò che amo di questo lavoro è che posso unire le mie conoscenze psicometriche con l'agilità necessaria ad adattarsi alle esigenze del mercato e dei clienti.

E l’AI ci darà una mano sempre più grande in questo, soprattutto per realizzare soluzioni sempre più personalizzate.

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